lunedì 15 aprile 2013

Cancellare il Precariato, Si Può Fare!

DI PEPPE CARPENTIERI

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Come ho scritto diverse volte per vivere da esseri umani bisogna cambiare paradigma culturale ed anche sul tema del lavoro è necessario ribaltare schemi mentali obsoleti e sbagliati che hanno distrutto la società. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla cronicizzazione dei livelli di disoccupazione e l’introduzione del precariato. Per introdurre forme legalizzate di schiavitù la scusa dei Governi, sotto dettatura delle SpA, è stata la ripetizione ossessiva nei media e nelle scuole circa un dogma religioso: “aumentare la competitività nei mercati globali“, etc.

Quasi tutti abbiamo perso di vista il vero obiettivo del lavoro: soddisfare un bisogno umano, cioè l’opposto dei dogmi finanziari delle SpA: massimizzare i profitti, avidità, materialismo, consumismo compulsivo, inquinamento, schiavitù e insicurezza economica. L’obiettivo di una società normale è banale: garantire la piena occupazione attraverso impieghi socialmente utili. Ripeto: garantire la piena occupazione. Le comunità, la società hanno tutti i mezzi per mettere in condizione ogni cittadino di poter scegliere di lavorare secondo le proprie possibilità garantendo un congruo compenso rispetto all’attuale costo della vita, si può fare e non esiste alcun problema economico, è sufficiente applicare la sovranità monetaria ed avere un equilibrio fra domanda e offerta.

Per raggiungere questo obiettivo bisogna cancellare le forme contrattuali di precariato introducendo un contratto unico nazionale, uguale per tutti gli impieghi pubblici e privati. Ogni cittadino deve ricevere uno stipendio dignitoso con tutte le garanzie previdenziali e infortunistiche ed esser sottoposto ad una verifica annuale dopo i primi anni di lavoro. Per i successivi anni la verifica potrebbe essere ogni cinque anni. In questo modo non si perderà lo stimolo per aggiornarsi, e si tenta di prevenire fenomeni degradanti di lassismo e di sfruttamento dello Stato. Ci saranno solo contratti a tempo indeterminato, ma con la possibilità di esser spostati, ogni cinque, sei o sette anni, in casi particolari: “licenziamento” e re-impiego in ambiti lavorativi completamente differenti. La verifica è uno strumento utile allo Stato per sostituire il lavoratore dipendente che non sia idoneo per l’impiego che riteneva di poter sostenere, e prendere provvedimenti per aiutarlo in tutti sensi: un consiglio, un aggiornamento professionale o un altro impiego. In questo modo si ribaltano due dogmi sbagliati del mondo del pubblico impiego: precarizzazione a vita e posto pubblico garantito a vita.

Incertezza economica a vita e scarsa qualità della vita. Il punto di partenza di questa semplice proposta ribalta un’obsoleta convinzione, non sono i soldi che qualificano il lavoro, ma le capacità creative ed operative dell’individuo. E’ dimostrabile che manager pubblici e privati anche se pagati profumatamente prendono decisioni sbagliate, ed è riscontrabile che un impiegato sottopagato rispetto al costo della vita lavora male poiché stressato. E’ banale pensare che trovare un punto di equilibrio fra giusto reddito e impiego sia possibile, creando un mondo del lavoro realmente più efficiente uscendo dall’obsoleta competitività.

Ribaltando i dogmi obsoleti bisogna puntare a dare certezza economica a chi lavora ed a chi verifica il lavoro per “licenziare” o premiare. Allo stesso tempo dovrebbe essere obbligatorio garantire un impiego a chi viene sostituito sempre con gli stessi livelli di reddito, con le medesime garanzie contrattuali (previdenza e infortunistica). Nella sostanza un cittadino nel corso della vita può svolgere diversi impieghi garantendo alti livelli lavorativi, e chi invece ha problemi di inserimento potrà risolverli trovando nel tempo l’impiego più idoneo per lui, in quest’ottica il cittadino è al centro della pianificazione politica e non più il reddito. Perseverando su questo ragionamento emergerà una nuova realtà sociale, chi avrà buona volontà troverà l’impiego che ambisce e potrà avere un reddito sufficiente a vivere in armonia con la natura, mentre chi non avrà buona volontà dovrà adattarsi e cambiare il proprio schema mentale perché non si troverà in condizioni di degrado, ma si troverà in una società virtuosa ove ognuno sarà felice e soddisfatto in ciò che fa e per tanto, prima o poi, si troverà nella condizione di dover crescere partendo da se stesso. Oggi il disoccupato è emarginato perché non ha reddito, pensateci è il reddito che compie una selezione e non le capacità dell’individuo perché non siamo abituati a valutare i singoli, anziché dare loro opportunità di sbagliare e di crescere, mentre usiamo ancora criteri valutativi e selettivi obsoleti. Ribaltando gli schemi accadrà che le capacità degli individui, indipendentemente dal reddito, circa lo svolgimento di attività socialmente utili si compieranno le scelte, mentre attraverso l’esperienza i singoli matureranno, e le comunità cresceranno grazie alla creatività degli stessi.

I gruppi che funzionano stanno adottando altri criteri valutativi e selettivi, non più competitivi, ma cooperativi, collaborativi, basati sulle scambio gratuito delle conoscenze e delle esperienze. Si adottano sistemi di verifica delle esperienze su criteri realmente qualitativi, ed il dialogo occupa una parte importante del gruppo, della comunità, della società. I casi Eternit e Ilva stanno dimostrando la validità della teoria bioeconomica, e mostrano al mondo itero gli errori della religione neoliberista, dell’avidità come sistema “sociale”, mentre un’evoluzione tecnologica a servizio dell’umanità consapevole dei limiti della Terra, e consapevole circa le reali capacità umane, dunque, consente di ripensare una società diversa da quella odierna, uscendo dall’obsoleto modello industriale entrando nella “prosperanza“. Oggi il grande numero di disoccupati è dovuto all’impiego di nuove tecnologie nell’industria che ha sostituito l’uomo con le macchine e grazie alla globalizzazione che sfrutta i vantaggi monetari della delocalizzazione (fine di un’epoca). Nell’affrontare entrambi i problemi è comunque ragionevole ritenere che, con le conoscenze attuali sia impensabile e inaccettabile credere in un ritorno ai grandi numeri di lavoratori dipendenti nel settore industriale. Bisogna accettare il fatto che la tecnologia libera l’uomo da mansioni che possono fare i robot, mentre la società deve garantire ugualmente un reddito a tutti gli individui (la sfida di oggi), col vantaggio sociale di ideare nuovi impieghi che soddisfano meglio i reali bisogni umani.

E’ ragionevole credere che si avrà più tempo libero per stare insieme alle persone che si amano e percepire comunque un reddito dignitoso. E’ ragionevole ritornare a vivere in piccoli centri ed occuparsi di agricoltura con tecniche naturali, e lavorare ugualmente nel settore dei servizi – telelavoro – o nell’artigianato. Esistono numerose e nuove opportunità per avere un’esistenza migliore di quella odierna, ma prima di tutto è doveroso sostituire l’intera classe dirigente con una nuova, diversa e consapevole di dover cambiare paradigma culturale perché l’elite attuale non ha interessi nel mutare lo status quo.
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