domenica 29 settembre 2013

Il Bambino Cresce Nella Decrescita

MARCO GERONIMI STOLL

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In quaranta anni di carriera mi sono dedicato alla scuola e all’animazione sociale per i primi 25. Poi, visto le vicissitudini del mio paese, l’Italia, ho dovuto ri-inventarmi nel settore privato. Sono stato pubblicitario e da una dozzina d’anni sono un pubblicitario disertore, uno a cui non piace condizionare la gente al consumismo, ma che per mestiere ha conosciuto molte tecnicuzze che vi convincono a desiderare quello che non vi serve.

La cosa più sconvolgente, vi assicuro, è scoprire concretamente l’entità dei budget spesi nell’advertisement (quasi tutto televisivo) in questi ultimi decenni. Un minuto sulle sei principali reti italiane costa quanto lo stipendio di tutta la vita di una maestra; ciascun italiano, al termine di una vita ha pagato indirettamente (nascosto nel prezzo delle merci) il costo di una discreta casa. Oggi, per mestiere, aiuto le organizzazioni della decrescita (enti, associazioni, movimenti ed aziende dell’altra economia come contadini bio, artigiani del riciclo, installatori solari…) a comunicare senza marketing. Questi imprenditori scommettono la vita per sviluppare forme sostenibili di economia. Li conosco bene, li stimo, vedo che fanno molto sul serio; sono forme di economia che reggono discretamente alla crisi e, tra tutte le forme di investimento per creare un posto di lavoro, quasi sempre sono la più economica in rapporto ai risultati. Tuttavia occorre restare guardinghi: «economia» e «sostenibilità» sono parole trabocchetto, ci sta dentro tutto e il contrario di tutto. Serge Latouche sostiene che «sviluppo sostenibile» è un ossimoro perché non possono davvero convivere contemporaneamente la crescita industrialista e la sostenibilità ambientale. A dimostrazione di questa tesi ricorda i mille esempi in cui orribili delitti ambientali, che hanno prodotto scempi inenarrabili e migliaia di morti, sono stati perpetrati da brand che nel marketing vantavano e promuovevano lo sviluppo sostenibile, spesso con finanziamenti o permessi di natura ecologica da parte dei governi e degli organismi sovranazionali. Invece la decrescita felice, o serena, o la semplicità volontaria… nella tesi di Latouche, non sono ossimori. (…) L’ossimoro è una delle forme più potenti per aggirare le difese della vostra mente, perché prende due categorie che la mente conosce già, ad esempio giovinezza e vecchiaia, e le combina ad esempio dicendo che quel ragazzo è già vecchio, o che quell’adulto è un bambino… Quando su un gelato freddo metti una marmellata calda si aprono le papille gustative e l’olfatto. Davanti all’ossimoro accade una cosa simile, la mente apre le difese; può entrarci il male del marketing o il bene della poesia. Come pubblicitario ed ecologista dovrei dar ragione a Latouche, ma in termini di arte e poesia dovrei dire il contrario, l’ossimoro vero è quello che fa fare uno scarto mentale evolutivo, sovverte le categorie del pensiero e genera nuovi modi di vedere le cose. Nuovi frames, nuove cornici mentali, ciò che Latouche chiama “ricontestualizzazioni”. Sappiamo tutti che questa è la cosa più importante. Fa la stessa cosa che può fare un insegnante quando vuole intuire, di un dato concetto, quale competenza a monte è stata condizionata dal marketing, quale immaginario artificiale è stato indotto. Semplice. Digita la parola su Google e guarda le immagini che escono. Sarà forse empirico, sarà euristico, eppure funziona. Anzi, forse proprio per questo funziona. Ecco quello che succede digitando sviluppo sostenibile (…) Tre cerchi si intersecano: sociale, ambientale ed economico. Tre aggettivi: di cosa? Di sviluppo, naturalmente. Allora facciamo la stessa operazione googlando «sviluppo». Ecco ciò che esce. Un sacco di diagrammi e frecce economiche che salgono; c’è anche qualche qualche pianta, qualche pianeta Terra, ma purtroppo se li cliccate finite quasi sempre nel green washing di qualche corporation. Somiglia a quando digitate «Crescita» o «Progresso»: frecce e grafici che raccontano un aumento, quasi sempre economico. Anzi, lo promettono, perché sono intrise di quell’ideologia sviluppista del secondo novecento, quella che diceva che l’economia gira se produciamo e consumiamo di più. Ancora oggi molta gente la pensa così: il senso comune è un prodotto artificiale indotto dal marketing, e più in generale dai media di massa quindi: sei più ricco se spendi, l’economia gira se sprechiamo risorse, sei autorevole se ti indebiti, ecc. (…) Così dev’essere, la questione non è solo economica ed ecologica, è anche psicologica e culturale: abbiamo bisogni indotti, abbiamo inferiori sensibilità, ci sentiamo meno belli, siamo perennemente inappagati. Noi pubblicitari sappiamo esattamente come funziona questo meccanismo: sappiamo come farti sentire a disagio col bellissimo vestito dell’anno scorso, farti sentire ammirabile se giri con un Suv da 8 Km/litro, farti sentire una cattiva mamma se non propini al bimbo l’ultima chimicaglia alimentare…. Fior di miliardi sono spesi per convincervi, tanto li pagate voi: sono una percentuale parassitaria nascosta nel costo delle merci. Il marketing allunga la filiera perché fa parte della filiera. Ecco perché marketing e filiera corta non vanno d’accordo. Ecco perché se lasciamo l’insegnante solo, a far da unico baluardo culturale davanti a questa potenza di colonizzazione dell’immaginario dei bambini, è una formica che combatte contro un elefante. Di tutto quel che c’è nel carrello, poco resta nel vostro corpo; ma quel poco diventa ciccia, mentre la pubblicità vi impone di essere magri. Schizofrenia indotta: è un ottimo affare; ma non per voi che pagate due volte, per ingrassare e per dimagrire, mentre anche il diagramma dell’autocompiacimento crolla a zero. Il resto di tutti quei chili di merce è tutta roba che finisce in pattumiera. Già dagli anni ’80 nelle scuole si cercava di correre ai ripari. Le tre R, forse le avete imparate alle elementari: Riusare, Ridurre, Riciclare. Questo ha permesso in pochi decenni di passare alla raccolta differenziata in tutta Europa. In Italia meno, in molte zone c’è ancora una lotta contro la mafia che gestisce le discariche e/o contro i politici corrotti che vogliono fare altri inceneritori (…). Negli anni ’80 quando le municipalità stavano passando dalla raccolta generica di rifiuti alla raccolta differenziata, sono stati spesi molti soldi in pubblicità (quello che allora si chiamava «marketing sociale») con esiti scarsissimi; quando invece sono venuti nelle scuole gli animatori a lavorare coi bambini, i bambini hanno sensibilizzato le famiglie e rapidamente i comportamenti sono cambiati (…). Le tre R però non bastavano. Hanno cominciato a nascere delle quarte R, diverse in diversi contesti: ricomprare, ripensare, riparare, rispettare… La questione è che le famose 3 R sono subordinate alla motivazione, alla coscienza, ad aspetti psicologici e sociologici. Il rifiuto, prima che un sacchetto di materia da conferire in qualche bidone, è un luogo della mente; c’entra col rimosso. Questa è una parte importante della sfida per l’educatore. Si slitta subito verso il rifiutare: cos’è lo sporco e il pulito, il nuovo e il vecchio, e ancora: il conservabile, l’utile, il bello…; in definitiva, cosa accogliamo e respingiamo negli spazi sempre più pieni della nostra casa, metafora del nostro corpo e della nostra mente sempre più intasati. Veniamo programmati per essere persone di plastica tutte uguali, che si differenziano per qualche abito esteriore. (…) Più siamo omologati esteriormente, più la nostra parte singolare resta inespressa, nascosta, quindi potenzialmente repressa e nevrotica. Purtroppo la capiscono assai meno molti politici e giornalisti. I marketer la capiscono meglio di tutti, ma in malafede. Per fortuna non ci lasciamo programmare troppo, e funziona sempre meno via via che i personal media prendono posto ai media di massa. Le tre o le 4 R non ci bastano se non ci poniamo il problema di che cosa sente e desidera, di che abitudini prende un bambino che cresce nel consumismo. Quante volte avete messo il bambino piccolo nel carrello? Per lui è uno spasso, a voi va meglio perché va in trance e non fa troppe bizze per comprare qualcosa. Naviga in un paesaggio di merci, in un universo di merci, nel carrello assieme alle merci; lui piccolino, in un’età in cui sente che le cose hanno un’anima, le scatole diventano quasi dei fratellini. Ovvio: impara che anche lui è una merce. Da grande cercherà di essere il brand di se stesso per «posizionarsi» sul mercato della visibilità. Le merci viste da un bambino sugli scaffali sono magiche, divine. Non hanno una storia né nel prima (processo di produzione) né nel dopo (pattumiera…). Sono fuori dal tempo, perché non ci sono stagioni. Sono fuori dallo spazio: è indifferente che quel frutto venga dall’Australia o da dietro casa. Nascono dal nulla: il pollo nasce già incellophanato per partenogenesi nel banco frigo; è proprio inconcepibile pensare che sia mai stato un animale vivente, di quelli che ti guardano negli occhi, fanno la cacca, vorresti toccare ma scappano… Un bambino che mangia junk food davanti alla Tv: c’è una sinergia profonda tra la Gdo (grande distribuzione organizzata) e televisione. Il consumo è legato al condizionamento della Tv (e diminuisce via via che subentra internet). La Tv è molto meno potente di pochi anni fa, ma è ancora piuttosto pervasiva; il condizionamento non nasce solo dalla pubblicità, tant’è che colpisce anche in paesi dove la pubblicità per l’infanzia è regolata.

Depriva il bambino di cinque abilità.
Uno, la possibilità di diventare anche emittente: riceviamo moltissimi input (un’overdose quotidiana di stimoli, dati, informazioni…) ma degli output che vogliamo emettere non frega niente a nessuno. Due, la capacità di affinare i sensi. Due quelli diversi dalla vista: senza di essi non esiste il piacere delle cose materiali. Consumiamo molta merce pessima perché non discerniamo le qualità; anche quando consumiamo cose buone (cibo, tessili, arredi…) spesso lo facciamo senza assaporare, senza discernere… senza piacere: ma che razza di edonismo è? Per godere la differenza tra una mela bio e una industriale bella ma insipida, occorre ri-imparare a sentire. Tre, l’empowerment. La sensazione di poter agire sul mondo è indispensabile per la democrazia. Senza di essa capita di decidere in modo rapsodico e distratto, ad esempio ci si comporta col voto come se fosse un telecomando. È il vecchio ma ancora attualissimo concetto di empowerment, che nell’era di internet e della democrazia dal basso torna centrale. Il contrario di empowerment è la marginalizzazione, l’impotenza, la sensazione che quello che dici non interessa a nessuno (…) Quattro, la capacità di star soli in silenzio. Poi c’è il problema della capacità di stare da solo. Esposti al flusso potente dell’informazione abbiamo tutti paura del silenzio, della pausa, del rallentamento: eccitati e drogati dall’accelerazione appena rallentiamo il vortice delle emozioni e si calmano le acque, vediamo cosa viene a galla; spesso non vogliamo vederlo. Abbiamo panico, dobbiamo riempire, saturare, la nostra agenda diventa bulimica. Ma questo impedisce di far progetti a lungo termine e spesso ci porta a scelte superficiali, effimere, senza la capacità di ascoltare nel profondo le nostre istanze psichiche. Cinque, la capacità di pensare insieme. Ci ricordiamo di essere stati animali sociali solo quando qualche riduzionista dice che ci serve un bel maschio alfa per rimetterci tutti in riga. No, parliamo di tutt’altro, è vero che abbiamo anche sensibilità collettive, è vero che tuttavia educhiamo principalmente quelle individuali. Qualsiasi insegnante conosce l’effetto pigmalione, quando il bambino si adegua inconsciamente alle aspettative, quando diventa motivato o indisciplinato semplicemente perché tu ti aspetti che diventi motivato o indisciplinato. Anche i pubblicitari conoscono benissimo questo meccanismo: tutti comunichiamo reciprocamente tempi, motivazioni, rabbia, gioia, dolore, ansia, passione, stanchezza, entusiasmo… tutti con tutti. Ma se il bambino non sviluppa competenze sociali, sarà poco abile, più solitario o gregario. Morale: Servono altre erre. Ecco che le 3 o 4 R non bastano, servono più item. Latouche ne elenca 8 che secondo me sono molto interessanti per la scuola, perché mettono insieme sia gli aspetti specificamente ecosistemici che quelli psicologici e sociali delle condotte e delle motivazioni quotidiani.

Propongo di chiudere sulle ultime due:
7. Rivalutare. Restituire dignità ai valori umani. L’altruismo contro egoismo, la cooperazione vs la concorrenza, il piacere del tempo libero vs ossessione del lavoro, la vita sociale vs consumo effimero e individuale, il locale contro il globale, il bello contro l’efficiente, il ragionevole vs razionale…
8 Ricontestualizzare. Vedere da un altro punto di vista il contesto concettuale ed emozionale di alcune situazioni, per mutarne il senso. Esempio: «scarsità e abbondanza» in economia fondano l’immaginario economico. L’economia attuale trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno. Ricontestualizzare questo concetti significa mutarne il senso.

Credo che il lavoro da fare oggi sia proprio sul senso imprevisto dei contesti che conosciamo. Non è a caso che molti dei contenuti che vi propongo risalgono agli anni ’70 e ’80, nell’era della tecnologia analogica, prima della moda neonozionistica e pseudo-aziendalistica che colpì la scuola (almeno quella di noi italiani) dalla fine degli anni ’80. C’entra colla nuova era digitale. Oggi il bambino fa esperienza di prodigi virtuali e si impossessa di formidabili protesi tecnologiche; noi diciamo che è bello, che è cognitivamente evolutivo, ma solo a un patto. Solo se non coincide con la deprivazione dell’esperienza fisica, materiale, concreta, corporea. Altrimenti avremmo mezzo bambino genio e l’altra metà con handicap sensoriale.

Un bambino «intero», tanto più ha esperienze virtuali, quanto più ha bisogno di correre, toccare, danzare, manipolare, sporcarsi, urlare, sudare… il bambino per essere adeguato ad alti livelli tecnologici ha bisogno di esperienze primitive. Evitiamo di tenerlo in un mezzo banale, poco digitale e poco analogico, cioè con pochi massimi tecnologici e pochi minimi tecnologici. Piuttosto andiamo contemporaneamente ai due estremi, esageriamo. È meglio.

FONTE

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mercoledì 25 settembre 2013

Realtà e Mass Media

DI LUIGI ZAFFAGNINI

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La cultura che ha favorito il distacco dalla realtà
In queste riflessioni ci sono tutti i capisaldi di una strategia che, oggi piú che mai, dovrebbe essere sentita come il solo orientamento educativo capace di raddrizzare e rafforzare quella cultura che rende una società autenticamente civile e progredita. Diciamo dovrebbe, perché in pratica le cose stanno ben diversamente. Tutto parte dal relativismo che negli ultimi venti anni si è affermato dopo la crisi delle precedenti proposte culturali (razionalismo, positivismo, nichilismo ecc.), costituendo le basi della cultura «postmoderna» ovvero del «pensiero debole», come è conosciuto dai piú.

Perché si capisca in concreto cosa vuol dire relativismo bisogna pensare che si tratta di un modo di ragionare che fa sembrare giusto come principio generale, volta per volta, in chiave sempre diversa, quello che è invece il punto di vista di un gruppo relativamente ristretto. Gli esempi sotto gli occhi di tutti sono quelli secondo i quali sono stati da tempo proposti, attraverso i media, sul piano politico-legislativo modi di vita che riguardano specificatamente i gay o la struttura della famiglia o la libertà d’aborto o l’eutanasia. In questo modo il relativismo è stato perfettamente «mimetizzato»; cioè di esso viene tenuto nascosto, dietro il paravento della tolleranza verso tutti, quanto invece conviene strumentalmente a chi vuole mettere sullo stesso piano norma ed eccezione, per ottenere o mantenere il potere con l’appoggio di determinati gruppi di pressione. A questo carattere di presunta tolleranza si aggiunge il fattore emotivo che fa leva su particolari casi umani per suscitare una generalizzazione. In tal modo si permette di far dipendere il contenuto della morale sempre piú da una prospettiva puramente umana, determinata da situazioni particolari e sempre meno da una concezione religiosa fondata sul valore della persona umana in generale. Un sistema di pensiero come questo ha soddisfatto indubbiamente le esigenze di molti e ha portato i comportamenti individuali a un livello notevole di egocentrismo, per non dire di egoismo. Tuttavia per realizzarsi tale sistema è dovuto venire meno alla coerenza interna e cadere spesso nelle formule della sofistica. Ciò vuol dire che si è fatto prevalere un atteggiamento tollerante e «giustificazionista» verso se stessi, mentre si è adottato un giudizio accusatorio e moralista verso gli altri, a seconda del momento e di ciò che faceva comodo. L’utilitarismo spicciolo e, ai nostri giorni, il potere in se stesso sono l’obiettivo della pratica sofistica adattata ai tempi. Punto di forza di questa sofistica è una comunicazione che si propone sempre di persuadere, caso mai di condizionare, ma che non aiuta assolutamente ad argomentare, cioè a ragionare correttamente. Questo tipo di comunicazione è quello che si fonda sul linguaggio dell’immagine e che fa derivare da esso un modo di pensare che, anche quando si fa a meno dell’immagine, usa comunque la stessa logica. Si tratta in fondo di una vera e propria comunicazione sofistica sui generis il cui scopo è quello di fare in modo che chi riceve il messaggio non si accorga del fine ultimo ingannevole, e quindi si schieri emotivamente a favore di qualunque asserzione o obiettivo vengano proposti dal comunicante, soprattutto se assumono l’aspetto di un principio astratto che sembra soddisfare un diritto individuale indiscutibile. Masse considerevoli di persone manifestano contro la guerra o si muovono contro i maltrattamenti degli animali, mosse dallo stesso sentimento, che fa loro difendere il principio abortista, senza avvertire la minima contraddizione. Interi paesi, come la Spagna del 2004, hanno scelto, addirittura, il proprio governo reagendo emotivamente a un attentato. Questo sistema di pensiero, dunque, ha il difetto di essere troppo dipendente dalle mode e dalle ondate emotive che contraddistinguono l’atteggiamento di massa del nostro tempo su cui gioca, come s’è detto, la sua funzione strumentale il mondo dei mass media. Pertanto succede che, mentre da una parte si afferma soggettivamente il primato dell’individuo e il conseguente relativismo dei valori, contemporaneamente si pretende dalla intera società il rispetto di regole e di comportamenti nella concreta realtà, moralisticamente imposti a tutti gli altri.

La comunicazione sofistica copre le contraddizioni. Dobbiamo dunque parlare di un predominio della comunicazione sofistica, la cui contraddizione interna sarebbe evidente, se le persone fossero maggiormente preparate a coglierla. Invece la sua natura profonda non viene percepita da quasi nessuno degli intellettuali e tanto meno dalla gente comune. Volere salvaguardare l’individualismo estremo dei diritti e pretendere al tempo stesso doveri e comportamenti ben precisi e concreti negli altri, non è solo un fenomeno di natura egoistica individuale, ma soprattutto un filo conduttore della nostra cultura. Cultura che viene quotidianamente insegnata e divulgata dai mezzi di comunicazione di massa e che genera, conseguentemente, un modus vivendi che solo per poco ancora potrà tenere nascosto il contenuto di grande violenza individuale e collettiva che vi si cela dietro. Ma questa cultura e questa mentalità non nascono a caso in Occidente e soprattutto in Italia. Non nascono dalla esistenza dei mass media, anche se da essi sono favorite e divulgate. Nascono da una lunga tradizione ideologica imposta come concezione radicale di massa, sfruttando proprio le caratteristiche di cinema, stampa, televisione e internet. Alla base di questo orientamento ideologico vi è una costante di pensiero che si è tradotta in una piú o meno consapevole adesione politica, anche in chi pensava di essere distante o addirittura oppositore delle teorie totalitarie. A giustificare un atteggiamento del genere è sempre stato il convincimento di «stare dalla parte giusta». E stare dalla parte giusta ha sempre voluto dire fare una lettura semplificata della storia e del Vangelo. Una sorta di autostima etico-politica, fondata su un complesso di superiorità morale. Trascurando, infatti, la realtà in sé, dimenticando la storia nel profondo, dissimulando la componente ideologica del culto del potere dietro il paravento della giustizia per tutti e del bene comune, si è costruita una nuova morale sociale. Essa si fonda, non sullo sforzo di migliorarsi individualmente per tendere alla perfettibilità di un sistema sociale, ma sulla superbia di credere di possedere già in teoria il modello di come dovrebbe essere la società, col quale modello spiegare i fatti quotidiani.

Idee di massa e manicheismo
Per questo le idee allo stato di opinione, che costituiscono la base delle ideologie massificanti, rappresentano, oggi, un dato di fatto diffuso e radicato. La mentalità dominante non corrisponde mai a una ricerca personale seria ed approfondita della realtà, ma sempre e solo a una risposta immediata ed emotiva, a un sommario giudizio, sulla base di valutazioni invariabilmente date prima di una lettura dei fenomeni. Oggi, quindi, la tendenza culturale piú diffusa è quella che ha portato all’estremo il bisogno di spaccare sempre verticalmente il mondo in due parti: da un lato il bene e dall’altro il male. Da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Per questo si potrebbe tranquillamente affermare che un neo-illuminismo semplicistico pensa ancora che l’uomo sia buono per natura e che le idee corruttrici e gli esempi corruttori di una società corrotta lo facciano deviare dalla sua originaria ingenuità. Ma, per decidere quali sono le idee corruttrici e per catalogare i comportamenti corruttori, la mentalità dominante fa ricorso proprio a una comunicazione sofistica. Tutto sta nel dimostrare che i buoni sono quelli che credono buone le teorie che promettono di realizzare società perfettamente funzionanti in teoria e i cattivi sono quelli che si richiamano alla realtà e che smascherano di volta in volta le contraddizioni e la violenza materiale e morale di coloro che si accontentano di avere fede in un modello terreno. Reciprocamente, quindi, pochi «opinion makers», cosí come i leaders politici, che fanno della ideologizzazione il proprio pane quotidiano, si attribuiscono la funzione di definire ciò che è bene e ciò che è male per i molti. È in questo, soprattutto, che risiede il potere, oggi come ieri. Il potere è raggiungere e detenere il ruolo in cui sia possibile imporre agli altri ciò che risponde al seguente assunto pensato, ma mai dichiarato apertamente: – Lo so io che cosa è giusto per te! –. E tutti non si accorgono che resta loro solo il compito di obbedire, ma credono che quello che viene loro additato sia giusto per sé e per gli altri (il cosiddetto bene comune). Cosí, in passato, si sono sempre costruite le società ingiuste e cosí si costruisce, oggi, la società di massa postmoderna, secolarizzata e pragmaticamente materialista. Questo manicheismo moralistico è proprio figlio del relativismo e della diffusione generalizzata della comunicazione sofistica, che, negli uomini del potere, ha sostituito la comunicazione autoritaria e/o paternalistica dei passati regimi. L’abilità nella comunicazione come strumento di potere consiste proprio nell’esprimersi in modo tale da produrre negli altri il massimo dell’individualismo coniugato con il massimo del conformismo senza che gli altri se ne avvedano. In buona sostanza il costruttore di opinione oggi ragiona cosí: «La mia idea e la mia volontà possono dominare sugli altri, purché rinunci a esternare il mio proposito utilitaristico». In tal modo si scambia il valore della conoscenza e della intelligenza (capacità di andare a fondo nella lettura delle cose) con la astuzia (capacità di uscire sempre vincitori con vantaggio personale in ogni situazione).

Nella comunicazione sofistica si modifica il concetto di realtà
Quindi, tutto il problema della esperienza viene spostato dal livello del contatto autentico con la realtà al livello superficiale del linguaggio e di ciò che si afferma, senza bisogno o possibilità di controllo e di verifica. Per di piú, quando un sistema di convivenza civile, come la democrazia, viene svuotato di valori forti e di principi, quali per lungo tempo sono stati quelli cristiani, si perde del tutto la possibilità di tale controllo, che viene piuttosto delegato incoscientemente ai media, diventati, ormai, giudici e maestri di interi Paesi, al servizio dei gruppi di potere. Inoltre il problema dell’utilizzo dei linguaggi nella comunicazione sofistica punta piú alla capacità di organizzare bene il discorso (cioè alla struttura dei segni) e alla caratteristica esteriore dei messaggi che non al rispetto di quegli aspetti che Taddei indicava come «verità logica», «verità morale» e—«verità ontologica». Soprattutto, la comunicazione sofistica stravolge il concetto di verità morale (intesa come adeguamento della mente alla realtà), perché prescinde dall’obbligo di un vincolo con la realtà conosciuta. La verità morale viene, cosí, rispettata solo apparentemente, in quanto il riferimento non è piú alla realtà in sé, ma alla idea, al disegno di imporsi sugli altri e quindi alla esigenza di trovare i segni adatti allo scopo. In poche parole: è l’obiettivo che si intende raggiungere (cioè l’idea progettuale) che diventa una realtà, rispetto alla quale formulare una nuova idea da tradurre in segni. Esemplificando banalmente: non è piú un qualunque evento in sé la realtà di cui parlare; essa è quello che si vuol far diventare quel determinato fatto nei confronti dei destinatari della comunicazione per ottenere il loro consenso. Se ad esempio la realtà di fronte a cui ci si trova è un fatto di violenza contro una donna, nel mondo della comunicazione sofistica la realtà circa cui ci si impegna non è l’informazione sul fatto in sé, ma quanto il fatto può «rendere» in termini di potere convincente nei confronti di un pubblico. È l’interpretazione piú adatta «in funzione di…». E «in funzione di…» vuol dire tante cose: dal vendere piú giornali o avere piú audience, fino al vero e proprio obiettivo di formare il modo di pensare del pubblico per garantire il consenso alla propria parte politica . La realtà come semplice verità dei fatti finisce per rimanere, quindi, molto, ma molto, indietro rispetto alla necessità di conquistare il consenso delle persone e di tenerle legate alla concezione di vita che il medium vuole sostenere.

La comunicazione deve affermare una morale e non il moralismo
Il senso dell’importanza di affermare una morale al posto del moralismo, attraverso la comunicazione, si comprende solo se alla concezione della divisione verticale del mondo se ne sostituisce un’altra: quella di una divisione orizzontale della società, quanto a capacità di ancorarsi alla realtà. Chi è in grado di riconoscere che nella conoscenza vale di piú il reale, rispetto alla quantità di interpretazioni ideali che vengono comunicate dagli altri, appartiene a una fascia che trasversalmente tocca ogni genere e ogni tipo di persone, indipendentemente dall’ambiente, dalla cultura e dalla ideologia cui appartengono. Tale fascia rappresenta di per sé un livello di moralità del pensiero piú alto di quello di chi si affida semplicemente alle idee altrui, per il solo fatto che non costringe la realtà dei fatti a piegarsi fino a quadrare con le teorie che si sono sposate. Chi, al contrario non riesce a distinguere tra ciò che gli viene comunicato (le idee degli altri) e la esperienza diretta nei confronti della realtà è portato ad appartenere a una fascia umana, anch’essa trasversale, che non può far altro che applicare nei suoi giudizi quel moralismo di cui s’è detto e quella conflittualità con se stesso e con gli altri, dovuta alle contraddizioni di un pensiero relativistico.

La stratificazione dei livelli morali
Anche nella visione della componente umana si deve accettare una natura fatta di male, che sta al fondo di ognuno, e di bene che sta a un livello piú alto, ma che si può raggiungere solo se ci si innalza dal livello basso nel quale tutti, in quanto uomini, sono e possono essere invischiati. Non è questa la teoria del peccato originale venduta a buon mercato; è la constatazione ancora una volta del primato del reale sul concettuale, del primato della conoscenza per esperienza su quella per comunicazione, della morale sul moralismo. Trascurando il fatto che anche i cattolici non sfuggono a una tentazione di interpretazione moralistica e non morale del mondo, quando privilegiano in astratto le conoscenze teoriche su quelle che provengono dalla esperienza, il sistema dei comportamenti è oggi disancorato dalla realtà per una serie di concause tra cui sicuramente quella del linguaggio dell’immagine ha la sua non piccola importanza. La comunicazione sofistica in senso moderno, quella che pensa di potere fare a meno della realtà, nasce al tempo della rivoluzione francese e da lí continua in un unico processo fino ai giorni nostri, ma con un momento di grande espansione e divulgazione che è il Sessantotto. Senza entrare in dettagli, è dunque una cultura che si espande e domina le coscienze, anche grazie alle tecnologie, anche a causa di cinema e tv, ma sono i modi di ragionare stessi che sono diventati i veri contenuti della comunicazione sofistica e non i riferimenti a una eventuale realtà. L’esempio palpabile della trasformazione dei comportamenti umani ad opera dei modelli suggeriti dal cinema, dalla televisione e dalla stampa di massa è quotidianamente verificabile da tutti. Non solo gli influssi della pubblicità negli acquisti, ma anche il sistema e la gerarchia dei valori sono stati sconvolti da idee trasformate in comportamenti suggestivi amplificati dai mass media. Tutti possono facilmente riflettere sul fatto che tante delle cosiddette conquiste della modernità si sono realizzate proprio grazie a una diffusa opinione di massa favorita dalle storie e dalle vicende umane trasmesse dai media. La cosiddetta fiction ha fornito a generazioni una etica comportamentale assai piú di quanto non abbiano saputo fare famiglia, scuola e chiesa messe insieme. E non solo in fatto di etica della sessualità alla quale è stata data sempre soverchia importanza sia pro che contro, ma addirittura nella individuazione e nel discernimento di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, una intera società occidentale ha tratto ispirazione dalla cultura di massa, anche perché, proprio la famiglia, la scuola, la chiesa la hanno a lungo snobbata o sottovalutata o al massimo considerata sotto il profilo puramente tecnico, senza comprendere nemmeno quelle indicazioni che provenivano dal magistero di grandi intellettuali come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, Popper, Postman, Mc Luhan e pochi altri.

La realtà nella esperienza e nella comunicazione
Ammettendo dunque che sia compito di chi vuole essere libero interiormente rivalutare l’importanza del reale, dobbiamo perciò parlare di «Realismo comunicativo» perché, dopo il ritorno alla realtà dell’esperienza e all’esperienza della realtà, dobbiamo anche comunicare questo patrimonio recuperato. Ma comunicare vuol dire cadere sotto il dominio dei segni che esprimono idee in quanto interpretazioni della realtà. E allora? Non c’è via di scampo: bisogna insegnare ad avere piú fiducia nello studio della comunicazione e meno fiducia nella storia delle idee. La storia delle idee, come insegnano tutta una pedagogia e una didattica della scuola italiana, può essere a piacimento manipolata a beneficio delle ideologie dominanti, mentre la indagine sulla struttura dei fenomeni può difficilmente essere falsificata se si possiedono gli strumenti scientifici adatti alla lettura. La prima conquista da fare per rendersi indipendenti da rischi è quella di giovarsi della distinzione tra linguaggio dei concetti e linguaggio dell’immagine e di tutto il patrimonio della educazione alla lettura dei media accumulato da Taddei, ma sarà obbligatoria anche una riflessione sulla portata insignificante alla quale si è progressivamente ridotta la conoscenza per esperienza diretta, nella vita del singolo individuo, da quando i mass media sono diventati di prepotenza la prima fonte nella formazione della personalità. La lettura approfondita dei linguaggi dei media non può essere confusa con una tecnica o con una esercitazione da specialisti. Occorre recuperare l’importanza di quello che ci capita tutti i giorni rispetto a ciò che si legge, si ascolta o si vede sui media. Diversamente diventa difficile ricomporre uno stato di integrità e dignità umana. Anche se quello che ci capita sotto il profilo della esperienza è poco, pochissimo quantitativamente, esso è tremendamente importante qualitativamente in quanto riguarda noi direttamente e singolarmente e non altri o non un pensiero o una idea, ma una trasformazione piccola o grande della nostra esistenza. Cosí un dolore, fisico o morale. Cosí una gioia. Cosí il male o il bene fatto concretamente. Cosí la morte. L’esperienza non si può condividere nella sua essenza, né si comunica semplicemente; si vive individualmente e il contenuto di ogni esperienza di vita riguarda un uomo nella sua unicità esistenziale. Il resto, cioè la condivisione della esperienza, è, quanto meno, un modo di dire che riguarda il livello della comunicazione, cioè il livello che i segni e le idee presentano in funzione di quello che vogliono ottenere dal recettore della comunicazione. Davanti alla stessa realtà le esperienze sono singolari e non collettive e il contatto con la stessa realtà da parte di persone diverse produce conoscenze diverse, che influenzano comunicazioni diverse. La realtà, che è conosciuta e sperimentata individualmente, diventa comunicabile, non in sé oggettivamente, bensí subordinatamente alla conoscenza (idea) che viene distillata nel segno, che indica o rappresenta tale realtà unitamente alla marca di tipo soggettivo consistente, sia nella interpretazione della realtà, sia nella adozione del segno che viene ritenuto piú adatto alla funzione di raggiungere il recettore della comunicazione. Quello che si condivide, dunque, è il livello dei segni che parlano di una idea che si riferisce a una realtà, ma non si parla della realtà, si parla della propria idea, della propria conoscenza di una precisa realtà. Come si fa allora a dare un senso all’espressione «Realismo comunicativo» se essa sembra solo una contraddizione in termini e se appare in pieno la impossibilità di fare coincidere realtà con i segni che servono alla comunicazione della conoscenza individuale di essa? Accettare la distanza abissale che c’è fra le due cose e pretendere che tutte le forme di comunicazione, sistematicamente, auto-denuncino sempre il proprio limite e la propria insufficienza come un male concretamente dipendente dalla natura stessa dell’uomo non potrà portare lontano, per quanto questa sia già una prova di onestà intellettuale.    Sotto il profilo logico, di indagine strutturale sul rapporto realtà-comunicazione, siamo allora inchiodati e verrebbe voglia di dire crocifissi. Anche la prospettiva di affidarsi alla antropologia e invocare la ragionevolezza come conquista di una consapevolezza che attenua le rigidità della ragione nella pretesa di esaurire ogni spiegazione della realtà non convince. Logica, filosofia e antropologia non risolvono il problema perché cozzano contro l’ostacolo del linguaggio, senza il quale non potrebbero né raccontare, né raccontarsi. Ancora meno servono psicologia e sociologia, scienze, cosiddette umane, che vivono esclusivamente sul piano della interpretazione dei fenomeni generali basandosi sulla indagine del soggettivismo emozionale o sulla campionatura quantitativa del mondo circostante nella pretesa di estrapolarne la qualità. La realtà non ha bisogno di un linguaggio: semplicemente è. Siamo noi, anche noi realtà appartenente all’universo dell’essere, che, quando cominciamo a distinguere tra il nostro e l’altrui essere, ci mettiamo a spiegarcela o a parlarne per descriverla e, per spiegarcela o descriverla, troviamo classificazioni e distinzioni, servendoci del linguaggio. E cosí costruiamo le impalcature che servono ad ammettere o a tenere lontani gli altri e la realtà esterna stessa dal nostro mondo interiore. Ma le gabbie piú inespugnabili e piú efficaci nel tenere lontano il reale sono proprio quelle costruite dai media della immagine con il loro modo di esprimersi, prima ancora che con i loro contenuti. È questa dunque la conferma della teoria cosí affascinante nella cultura del ‘900 e che va sotto il nome di «incomunicabilità»? A prima vista sembrerebbe proprio di sí. Ma allora, se cosí fosse, sarebbe tutto finito nel «non senso» della vita e nell’assurdo di ogni idea che trascende la materia e la finitezza terrena dell’uomo. Eppure è proprio dalla metodologia di lettura di Taddei che ci viene un aiuto a prendere le distanze dal nichilismo e dal relativismo! Cercare di adeguare il linguaggio alla realtà è stato il compito pregevole dell’arte e della letteratura che hanno dato vita a realismo, verismo, naturalismo, esistenzialismo! Ma, per quanto la tensione e lo sforzo artistico siano stati grandi, tutto ciò non è bastato a colmare il fossato che c’è tra segno e realtà. Soprattutto lo strapotere delle ideologie dell’uomo, tradotto in messaggi per la massa, la ha sempre avuta vinta sulla realtà stessa e qualsiasi opera di realismo è diventata o propaganda semplicisticamente zdanovista (il realismo della Unione Sovietica) o, nel migliore dei casi, retorica celebrativa della natura impregnata di spontaneismo postmoderno. Portare invece la realtà dentro il linguaggio dovrebbe essere lo sforzo improbo di chi non si accontenta di raccontare le sue idee, ma vuole essere raccontato dalla sua vita reale. Bisogna che «il verbo si faccia carne». Non è solo un modo di dire o una dichiarazione di religiosità. È un salto, non verso il mistero, ma verso la conoscenza della essenza profonda del senso della vita che non teme alcuna fine o alcun vuoto. Ma come? Il linguaggio per eccellenza di un Dio, che non sia frutto della invenzione dell’uomo e del mito, è stato quello dell’Incarnazione e della assunzione della dimensione storica in funzione di una Redenzione, cui niente e nessuno, se non un Amore estremizzato per la creatura «ha costretto» il Creatore stesso. Ma per noi? Per noi reale è ciò che è e non può non essere, e di cui non è logicamente possibile negare la esistenza sotto il profilo della semplice possibilità. Di fronte a questa constatazione non ci resta che percorrere la strada inversa a quella della Incarnazione per riconquistare quello stato che abbiamo perduto con il peccato originale. Si tratta di una faticosa, ascetica, lettura della nostra vita e del mondo, in direzione di un progressivo abbandono della «falsa terrestrità» suggerita dai linguaggi dell’immagine. Ecco allora che per far questo viene in aiuto proprio l’imponente lavoro di lettura strutturale sui media elaborato da Taddei. Con esso si smaschera la confusione creata dalla comunicazione sofistica e si restituisce la giusta importanza alla realtà. È questa l’unica strada da seguire per riappropriarsi di un rapporto con il reale, in un mondo dominato dal linguaggio dell’immagine, che, per sua natura, invita a confondere proprio l’essenza delle cose con la loro rappresentazione.

Leggere quindi i film (e i media in genere) in modo corretto porta alla riscoperta di quanta distanza ci sia tra la finzione e la verità e di conseguenza porta a restaurare un’etica, che è quanto di piú lontano dal «tradimento» della realtà operato dall’uomo mediante i segni delle nuove tecnologie. L’etica risulta fondata, cosí, sulla esperienza reale e non sulla imitazione del modello comportamentale offerto dalla cosiddetta «realtà virtuale», di cui cinema, televisione e computer sono portatori e diffusori, con la complicità degli uomini che si limitano a considerarne solo il lato tecnico oppure che ne sfruttano proprio la natura linguistica per asservire pensiero e comportamento di intere società.

FONTE: EDAV

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mercoledì 18 settembre 2013

La TV Presenta l’Aggressività come Soluzione per i Conflitti

DI LAURA TUSSI

Guerra

Per quanto concerne la rappresentazione diretta della violenza, i programmi televisivi ne propongono in abbondanza, mentre altri mezzi di comunicazione si sono imposti varie forme di autocensura. La maggiore assuefazione a tali fenomeni, deriva dal fatto che il contenuto violento è recapitato direttamente in una casa, in una famiglia, al bambino. Da queste preoccupazioni ha preso inizio un assiduo studio di ricerca sui risvolti dell’utilizzo frequente della televisione, soprattutto da parte dei bambini. Risulta abbondantemente dimostrato l’effetto dell’esposizione a questi modelli televisivi sul comportamento di adulti e bambini.

Le modalità in cui la violenza è rappresentata riduce le inibizioni, presentando giustificazioni abbondanti per aggirare le remore morali. L’aggressione fisica è presentata regolarmente come risoluzione ultima dei conflitti, assumendo una connotazione di giustizia e di prestigio. Un’analisi puntuale dei contenuti televisivi dimostra che i maggiori produttori di cadaveri in televisione sono gli eroi positivi ed i supereroi in genere. Il messaggio diretto ed esplicito consiste nel dimostrare che la violenza è lo strumento principale per il trionfo del bene sul male. Favorendo l’identificazione con il modello aggressivo, questa connotazione di valore ne pone in rilievo l’efficacia didattica. Le dinamiche violente ed aggressive dei contenuti televisivi comportano negli atteggiamenti infantili degli stati di emulazione che possono rivelarsi altamente dannosi nelle relazioni tra bambini che manifestano azioni intimidatorie durante i momenti di gioco e di svago con conseguenti atteggiamenti di odio e vendetta tra pari. Il palinsesto televisivo dovrebbe sempre tener conto della influenzabilità e suscettibilità dei bambini che facilmente imitano i personaggi “vincenti” della televisione. Di conseguenza sarebbe necessario proporre contenuti alternativi portatori di valori inerenti l’importanza del dialogo anche tra persone e personaggi differenti, la necessità di una relazione positiva in cui si rispetti sempre l’idea dell’altro, traendone ricchezza e giovamento.

Dall’interazione reciproca non deve scaturire violenza e competizione esasperata, ma ricchezza interiore, creatività, contenuto nei valori del dialogo e della pace che sorgono da un incontro proficuo tra persone, comunque sempre portatrici di implicite differenze ed intrinseche diversità.

Bibliografia
Bandura A., La violenza nella vita quotidiana, in “Psicologia Contemporanea”, 1981
Varin D., in “Vita e Pensiero”, 1985
Winn M., La droga televisiva, Armando, Roma, 1978

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domenica 15 settembre 2013

Meditazione Nella Vasca a Deprivazione Sensoriale

DI GIANPAOLO MARCUCCI


Ciao a tutti, oggi voglio parlarvi della mia esperienza di meditazione all'interno di una vasca a deprivazione sensoriale. Tale strumento è utilissimo a favorire stati di coscienza profondi, in quanto, grazie a come è progettato, permette di azzerare qualsiasi potenziale disturbo sensoriale che di solito distoglie l'attenzione e disturba la meditazione: una volta entrati ci si trova a galleggiare sospesi in un ambiente privo di stimoli visivi e uditivi. Per il raggiungimento di stati profondi di coscienza non è assolutamente richiesta la presenza di strumenti esterni, tuttavia vi sono condizioni come appunto tale vasca, che possono favorirli.

Nel video parleremo di cos'è la meditazione e quali sono i benefici che può portare con Stefano Zonta, operatore olistico che nel suo centro ospita la vasca dove ho avuto la mia prima esperienza di galleggiamento. Qui sotto invece allego la descrizione di tale esperienza.

Buona visione e buona lettura

"Sono in ansia sto per entrare nella vasca, ho una grande aspettativa di quello che accadrà. Entro nella vasca, è caldo, l'acqua è tiepida, l'ambiente riscaldato, percepisco che dal punto di vista fisico è molto piacevole. Mi sdraio ed è piacevole anche il fatto di galleggiare, galleggio, sono sospeso nel vuoto. Non ho bisogno di muovere nessun muscolo né di fare nulla, sto semplicemente galleggiando. Ho un cuscino galleggiante che mi sostiene la cervicale, così non devo nemmeno fare sforzi per tenere il collo. Spengo la luce, è tutto buio, completamente buio, non ci sono rumori, le mie orecchie sono dentro l'acqua. Gli occhi vedono il vuoto e il buio, il corpo è totalmente rilassato, appoggiato. Mi sforzo di sentire il corpo pesante, perché mi ricordo delle precedenti meditazioni che ho fatto a terra partendo dalla percezione del corpo come cosa pesante, ma non riesco, non riesco ad essere pesante, sono leggero, sospeso nel vuoto. Inizio pensare: sono da solo dentro la vasca e non c'è niente nessuno che mi può minacciare…eppure ho ansia. Così mi preoccupo, ho l'ansia, potrei avere un attacco di panico, non sarebbe piacevole, sprecherei la mia occasione di meditare, diventare intelligente, raggiungere stati profondi perché ho l'ansia, cerco di distrarmi, cerco di partire dalla percezione del corpo, ma andiamo male, percepisco solo il cuore che batte più forte di quello che dovrebbe secondo me, allora provo a lasciarmi andare a sentire le gambe, le braccia, il tronco, è strano, sono come assente al mio corpo. Quà bisogna cambiare strada….Mi ascolto, sento che ho sonno, non va bene, non posso avere sonno, non sono venuto qui per avere sonno e dormire ma per meditare, mi concentro così caccio il sonno, mi risale l'ansia...pausa. Un momento, forse il corpo vuole comunicarmi qualcosa, che non dormo abbastanza, che sono stanco, che ho sonno, che faccio quello che medita e poi ho sonno, ok, lo seguo mi rilasso. Entro in uno stato di dormi-veglia dove vedo immagini non chiare di persone e cose, sono rilassato, sto un po li, poi ne esco, esco dallo stato di dormi-veglia, non ho idea di quanto tempo sia passato, non ho idea di nulla, penso all'esterno, inizio ad essere disturbato: dopo devo fare l'intervista, l'intervista poi deve essere approvata. Il mio stato è più profondo di prima. Sono in ansia perché penso che il mio lavoro deve essere approvato. Proseguo. Mi vengono in mente delle riflessioni sul tempo. Io che poco tempo prima avevo fatto colazione non c'ero più, e non c'era nemmeno io che anni fa, o ieri, venivo umiliato oppure trattato male, oppure io che 10 minuti fa ero nella vasca e pensavo all'ansia. Proseguo, è solo un pensiero. La mia posizione inizia a farsi scomoda, c'è il collo che mi da fastidio, c'è qualcosa che non va, è tutto molto più scomodo di prima, "sto facendo resistenza" penso. Non capisco e dico: ma come io voglio uno stato più profondo, voglio essere illuminato, voglio purgarmi, voglio togliermi i traumi, voglio essere privo dell'Io, lo voglio con tutto me stesso, e perché sto facendo resistenza? Io lo voglio.

Arriva una domanda: "Lo vuoi?" un attimo di silenzio. "Certo certo che lo voglio!" La domanda però rimane li, come se la mia risposta non l'avesse neanche scalfita, come se non avesse nemmeno bisogno di risposta. Allora la rispetto "lo vuoi? Cosa vuoi?" Se ne andata un po' di ansia e soprattutto se ne andata la paura che quello che sto facendo lo sto facendo in modo sbagliato. Sbagliato secondo chi? Allora chiedo all'operatore del centro (con cui sono costantemente collegato e mi sente in cuffia) di mettermi un po' di musica di sottofondo; prima non l'avevo fatta mettere perché altrimenti chissà cosa avrebbero pensato gli altri di me, sarei di sicuro stato un mediatore poco serio. Sorrido. Parte una musica molto leggera, volume basso, la sento dall'acqua. Appena parte sento una sensazione piacevole. Torno alla domanda. Lo vuoi? Mi sento come una grossa statua piena di polvere che si deve muovere. Mi ripeto la domanda, Cosa vuoi?

Ad un certo punto la filosofia se ne va e arriva una risposta: "A me non me ne frega niente". Non mi convince molto, a me frega, sono uno che ci tiene a queste cose, ma si ripete: "A me non me ne frega niente di essere illuminato, essere illuminato è come vincere al superenalotto per me, è un'idea che mi da sicurezza". Mi dico: "Ma come? Che vuol dire?" Arriva una frase senza che io l'abbia pensata: "Io vivo costantemente in attesa che accada qualcosa, non vivo mai nel momento in cui accade quel qualcosa, vivo sempre nell'attesa. Sempre, continuamente, sono in tensione, ho come un motorino nella testa che fa un brusio continuo e non smette mai ma dice - smetterò di farlo quando arriverà quel qualcosa - ma non arriva mai quel qualcosa. Vivo come se mi stessero sempre rincorrendo e io non potessi mai fermarmi. Non sono libero, sto sempre e costantemente correndo, sempre di fretta, in attesa, vivo di fretta perchè c'è qualcosa che scade, c'è qualcosa che sta per arrivare e io non posso essere impreparato quando questa cosa arriverà…che fai qui ti vengono a salvare e te sei impreparato?" A questo punto una voce dice: "Voltati". Mi volto, non c'è nessuno dietro di me, nessuno che mi sta rincorrendo. CAMBIA TUTTO. In quel momento sento un brivido che unisce il mio stomaco alla testa, forte, ho gli occhi chiusi e vedo come un energia, un fuoco, un qualcosa che va verso l'alto e che io sto generando. E' come un fuoco infinito che produco io, sento come se non stessi brucando energie, non le stessi consumando ma le stessi io producendo, e come se ce ne fossero in più, ne avanzo, inizio a sorridere, rido, rido di gusto, "Voltati, è tutto ok, non c'è nessuno che ti sta inseguendo". Mi sento al sicuro, mi abbraccio, sorrido e sono felice.

E' una sensazione che dura per un po', non so dire quanto, poi la voce dell'operatore mi chiama e mi dice che sono passate 2 ore e che devo piano piano riprendermi e uscire. Riprendo il corpo piano piano e sono ancora un po' immerso in quella sensazione, piano piano mi alzo e vado a fare la doccia, è la doccia più bella che abbia mai fatto. Finito mi asciugo piano piano ritorno al mio stato attuale, con qualche strascico. Incontro l'operatore per fargli l'intervista, non passa molto e torna il brusio…l'ansia, l'intervista, gli impegni, la vergogna, la paura... Sono tornato."

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giovedì 12 settembre 2013

Come Reagisce l'America: Miley Cyrus contro la Siria

DI MICHAEL LOTFI  
TRADOTTO PER ECV DA FABRIZIA BELTRAMONE

TV
Quando il team di Ben Swann è in conferenza la discussione non verte certamente sulla cultura pop. Ciò nonostante, dopo aver visto il video di Miley Cyrus che è comparso tra le news della mia pagina Facebook, mi sono detto : “Che diavolo, guardiamolo!”. Dopo aver letto ed essermi ripreso dai disturbi viscerali causati, ho pensato : ”Cos’ha questo paese di sbagliato?”. Questo video è comparso almeno 50 volte nelle mie news, ma quasi nessuno parla della Siria. Così sono andato a vedere un po’di statistiche di Google solo per rendermi conto di come viene trattata la notizia. Il risultato è stato scioccante. Il 25 agosto, dopo la performance agli MTV Video Music Awards, il rating di Miley su Google è salito da 67 a 100, in meno di ventiquattro ore. Intanto, nello stesso lasso di tempo, l’esercito americano ha portato dei missili cruise in posizione, per colpire la Siria. La ragione professata dall’amministrazione Obama è che il governo siriano ha usato armi chimiche contro la popolazione; questo è comunque opinabile e non è stato provato. Infatti, moltissime fonti affermano che i ribelli siriani attualmente sono coloro che usano le armi chimiche, e non il regime di Assad. Altre fonti dicono l’opposto. Non sarebbe almeno necessario verificare certe voci sulla provenienza di queste armi chimiche? Il Congresso dovrebbe urlare a squarciagola l’incostituzionalità del Presidente Obama? Ben ha riportato questa situazione giorno per giorno.  
 
        Miley Cyrus VS Attacco Chimico in Siria secondo Google Analytics

Il mondo si sta ora posizionando per quella che si prospetta come la prossima guerra mondiale. Francia, Gran Bretagna e USA si stanno allineando contro Cina, Siria, Russia e Iran. Con forze militari così massicce che iniziano a muoversi in conseguenza al presunto uso di armi chimiche, ci si aspetterebbe che le ricerche sugli attacchi chimici in Siria siano alle stelle. Il 25 agosto il picco delle ricerche sugli attacchi chimici in Siria è precipitato a 3, cioè 4 punti in meno in sole ventiquattro ore. 
 
FONTE

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mercoledì 4 settembre 2013

Che Cosa Posso Fare Io?

DI JIDDU KRISHNAMURTI

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 Noi siamo responsabili. Non prendetevi in giro dicendo: “Che cosa posso fare io? Io, come individuo che vive una insignificante piccola vita, con tutta la sua confusione e ignoranza, che cosa posso fare io? L’ignoranza esiste solo quando non conoscete voi stessi. La conoscenza di sé è saggezza. Potreste essere ignoranti per quanto riguarda tutti i libri del mondo (e spero lo siate), riguardo a tutte le più moderne teorie, ma quella non è ignoranza. L’ignoranza è non conoscersi profondamente, fino in fondo, e voi non potete conoscervi se non vi osservate, se non vi vedete come siete effettivamente, senza distorsione, senza nessun desiderio di cambiare.

In un mondo di grandi organizzazioni, di grandi mobilitazioni e movimenti di massa, abbiamo paura di agire su piccola scala; temiamo di essere piccole persone che si occupano del loro orticello. E così diciamo a noi stessi: “Che cosa posso fare personalmente? Bisogna che mi unisca a un grande movimento per fare delle riforme”. Al contrario, la vera rivoluzione non avviene attraverso i movimenti di massa, ma attraverso una rivoluzione interiore della relazione. Soltanto quella è vera riforma, una radicale e continua rivoluzione. Noi abbiamo paura di cominciare dal piccolo, perché il problema è talmente vasto che pensiamo di doverci incontrare con molte persone, con grandi organizzazioni, con dei movimenti di massa. Ma certamente dobbiamo cominciare ad affrontare il problema in scala ridotta, cioè da “me” e “te”.

Quando comprendo me stesso, comprendo te e da quella comprensione sorge l’amore

FONTE: VISIONE ALCHEMICA

domenica 1 settembre 2013

In Italia la Democrazia si Costruisce Online

DI VALERIO BASSAN

internet
Nasce in Italia il social network della politica, dove i cittadini possono proporre iniziative dal basso, discutere sulla squadra di governo, avviare petizioni. Cuore del progetto - erede della community Politeia - sono i "ToDo", le proposte concrete di azione che gli utenti possono avanzare, discutere e votare.

Riscrivere la politica partendo dal basso, dai cittadini e dalle loro voci, attraverso un mezzo che ci rende tutti un po' più uguali: internet. È questo l'obiettivo dell'ambizioso progetto Unicavox, un "social network della politica" che vuole diventare un punto di riferimento per il dibattito pubblico italiano. La piattaforma è nata soltanto pochi mesi fa dall'idea di Stefano Boggi ed è l'erede di un breve esperimento risalente al 2010, Politeia, community che permetteva la condivisione delle proprie idee politiche e il confronto con quelle altrui. «Politeia era poco più di un'idea nata dai soci di un piccolo studio di comunicazione», ricorda oggi Boggi. «Ben strutturata, interessante, originale, ma pur sempre un'idea. E tale è rimasta per un periodo fin troppo lungo».

Gli ultimi due anni di altalenanti vicissitudini economico-politiche in Italia hanno riportato in auge l'idea di far nascere un punto di incontro per la costruzione della politica. Ovviamente, partendo dai cittadini. «Il cassetto dei sogni lo ha riaperto la crisi, quella politica e quella economica. La prima ha reso ancora più evidente e preoccupante il dilagare dell'antipolitica in Italia, la seconda ci ha dato qualche cliente in meno e un po' di tempo libero in più, quanto basta per affrontare un progetto interno. Da Politeia a UnicaVox il passo non è stato breve, ma è servito a raggiungere la prima tappa importante, la creazione di una start-up e la messa online della piattaforma». Ad oggi UnicaVox è composta da diciotto soci. Tra di essi c'è un'internet company, che si occupa degli aspetti tecnici del progetto e che lavorerà sui miglioramenti da fare in base ai primi feedback ricevuti dagli utenti.
Per ora, infatti, il sito è ancora in versione beta. Anzi "in fieri", per dirla in latino - insieme al greco, la lingua madre della politica. Ma come è nata l'idea di UnicaVox? Secondo Boggi, il progetto è figlio «più di un'esigenza che di un'illuminazione. La politica è da tempo argomento rilevante nello stream dei social network più diffusi, ma con un grande limite. I canali “generalisti” centrano l'attenzione sugli esponenti politici, sui loro account e sulla capacità che hanno di catturare fan e follower. Si torna quindi a parlare di popolarità e la comunicazione tra eletti ed elettori è spesso tutt'altro che bidirezionale. Più che occasioni di confronto diretto, i social network ci sono sembrati solamente nuovi canali per una vecchia propaganda. Ecco, abbiamo pensato a UnicaVox come una piattaforma dove il ruolo centrale è occupato dalle proposte, quelli noi definiamo i "ToDo" della politica».

I ToDo, nel gergo di UnicaVox, sono appunto le proposte concrete di azione che vengono avanzate direttamente dagli utenti. In questo momento, ce ne sono online già più di trecento: i cittadini discutono, valutano, propongono implementazioni e modifiche. Con l'obiettivo di realizzare una proposta attuabile in breve tempo e concretamente. «Qui un qualunque cittadino ha gli stessi strumenti di un esponente politico. Il nostro obiettivo è la vera partecipazione, cercando di raggiungere un nuovo livello rispetto a quello informativo a cui tutti siamo abituati. Il web offre queste potenzialità, speriamo di sfruttarle al meglio e sempre di più». Alla base di tutto, comunque, c'è la collaborazione politica: «È qualcosa che secondo me, in Italia, è sempre venuto a mancare», racconta Stefano. «In particolare negli ultimi anni quando, a partire dalla scomparsa dei voti di preferenza, fino all'affermarsi del concetto di casta, la maggior parte degli italiani si è allontanata dai processi democratici e addirittura dal voto».

Oggi UnicaVox vuole proporre una strada alternativa alla democrazia partecipata, ma senza la presunzione di rappresentare una soluzione definitiva. «Ci piacerebbe fare aumentare nei cittadini la voglia di partecipare alla gestione della “cosa pubblica"», spiega Boggi, secondo cui comunque internet non è pronto a diventare un luogo di "realizzazione politica" a tutti gli effetti: il passaggio da agorà reale ad agorà virtuale non si è ancora compiuto. «Ad oggi siamo ancora fermi all'aspetto informativo, c'è poco confronto con chi governa. Il futuro è raggiungere una vera democrazia partecipata e, in questo, internet offre potenzialità pressoché infinite. Ma mancano gli strumenti adeguati e, con loro, manca la capacità di sfruttarli». UnicaVox, almeno nelle idee del suo fondatore, vorrebbe contribuire a colmare un po' questo vuoto: «Per ora, speriamo che il nostro diventi un luogo dove crescere politicamente, un grande contenitore di idee innovative e perché no una palestra politica per chi un giorno potrebbe governare. Speriamo che anche UnicaVox, crescendo, possa dare un contributo sensibile a questo passaggio. E un giorno, magari, saremo davvero pronti a parlare di Electronic direct democracy».

FONTE: LINKIESTA

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